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Cosa propone il referendum sulla cittadinanza?
Il referendum propone la modifica dell’articolo 9 della legge n. 91/1992, riducendo da 10 a 5 anni il requisito di residenza legale e ininterrotta in Italia per poter presentare domanda di cittadinanza per naturalizzazione.
Nei fatti, però, il percorso è molto più lungo dei soli 10 anni oggi previsti dalla legge. Se si sommano il tempo necessario per maturare i requisiti (ad esempio, maturare il reddito richiesto) e i lunghi tempi di attesa per la valutazione della domanda da parte della pubblica amministrazione, si arriva facilmente ad almeno 15 anni prima di ottenere la cittadinanza. Questa proposta intende quindi rendere il sistema più equo e realistico, senza stravolgere i criteri già previsti dalla normativa.
Perché si propone questa modifica?
Fino al 1992, la legge italiana prevedeva già il requisito dei 5 anni di residenza per la naturalizzazione. Con la riforma del 1992, l’Italia ha introdotto uno degli standard più restrittivi d’Europa, penalizzando le persone straniere, soprattutto quelle extra UE. Ridurre il requisito di residenza a 5 anni significa riconoscere il contributo delle persone che vivono, lavorano e partecipano alla vita della società italiana.
Questa riforma è una forma di ius soli o ius scholae?
No. Questa proposta si differenzia sia dallo ius soli che dallo ius scholae in maniera sostanziale:
- Lo ius soli riguarda chi nasce in Italia e attualmente non ha accesso automatico alla cittadinanza.
- Lo ius scholae, nella versione attualmente in discussione, si riferisce alla possibilità di ottenere la cittadinanza dopo aver completato un ciclo di studi di almeno 5 anni.
- Il referendum riguarda le persone straniere che risiedono legalmente in Italia da almeno 5 anni, indipendentemente dall’età, dal percorso di studi o dal luogo di nascita. Inoltre, coinvolge anche i figli minori delle persone che ottengono la cittadinanza.
La cittadinanza verrebbe concessa automaticamente?
No. La cittadinanza per naturalizzazione non è automatica. Anche con il requisito ridotto a 5 anni, chi presenta domanda dovrà comunque soddisfare tutti gli altri criteri previsti dalla legge, tra cui:
- Conoscenza della lingua italiana
- Reddito adeguato e documentato negli ultimi anni
- Assenza di motivi ostativi legati alla sicurezza della Repubblica
Quanto tempo durerebbe la procedura per ottenere la cittadinanza se il referendum venisse approvato?
Anche se il referendum riduce il requisito di residenza da 10 a 5 anni, il tempo complessivo per ottenere la cittadinanza rimarrebbe comunque molto lungo. Oltre ai 5 anni di residenza legale, bisogna considerare che la pubblica amministrazione ha fino a 36 mesi (3 anni) per valutare la domanda. Questo significa che, tra il tempo necessario per maturare i requisiti e l’iter burocratico, potrebbero passare comunque 8-10 anni prima di ottenere la cittadinanza anche dopo l’approvazione del referendum.
Cosa succede nel resto d’Europa?
Il requisito dei 10 anni di residenza attualmente previsto in Italia è tra i più alti in Europa. La maggior parte dei Paesi UE prevede tempi più brevi:
- Germania: dal 2024 ha ridotto a 5 anni il requisito di residenza, riconoscendo il contributo dei cittadini stranieri.
- Francia: richiede 5 anni di residenza, ridotti a 2 anni per chi ha studiato nel Paese.
- Spagna: prevede 10 anni, ma riduce a 2 anni per cittadini di Paesi con legami storici e culturali con la Spagna.
- Paesi Bassi: richiedono 5 anni di residenza continuativa.
Il referendum permetterebbe quindi all’Italia di allinearsi agli standard europei, rendendo la normativa più equa e coerente con il contesto internazionale.
Quali sono i benefici di questa riforma?
- Maggiore inclusione sociale: ridurre il periodo di attesa significa riconoscere più rapidamente il ruolo delle persone che già vivono e contribuiscono alla società italiana.
- Miglior accesso ai diritti: con la cittadinanza si acquisiscono pieni diritti civili e politici, tra cui il diritto di voto.
- Allineamento agli standard europei: oggi l’Italia è tra i Paesi più restrittivi nella concessione della cittadinanza, rendendo difficile l’integrazione.
- Riconoscimento del contributo economico e sociale: milioni di persone lavorano, studiano e pagano le tasse in Italia senza poter accedere agli stessi diritti dei cittadini italiani.
I punti sopraelencati si tradurrebbero, quindi, in una sostanziale riduzione delle forme di discriminazione per le persone oggi prive di cittadinanza italiana e comporterebbe, oltretutto, un profondo cambiamento sotto il profilo identitario: chi ha un background migratorio non verrebbe più percepito come “di passaggio” o semplicemente “soggiornante” in Italia, ma come una persona che progetta di costruire la sua vita qui.
Cittadinanza e discriminazione
Quando i requisiti per la cittadinanza sono troppo onerosi (legali, amministrativi ecc.) possono ostacolare l’accesso di persone che risiedono in modo permanente in Italia alla cittadinanza, privandole così di diritti e prerogative concessi esclusivamente ai cittadini.
Laddove il trattamento differenziato riservato alle persone residenti prive della cittadinanza italiana non sia giustificato perché insito nell’avere nazionalità diverse, sussiste dal nostro punto di vista un impatto discriminatorio che deriva dalla mancanza di cittadinanza.
Esistono dati secondo i quali le persone con passaporto straniero sono discriminate sul lavoro?
Sì. La necessità di mantenere requisiti lavorativi e economici per poter ottenere il rinnovo dei documenti necessari per soggiornare regolarmente in Italia, potrebbe spingere le persone straniere che risiedono qui ad accettare condizioni di lavoro più precarie e in condizioni di sicurezza inferiori. Sembra confermarlo il rapporto INAIL 2023 (aggiornato al 31 ottobre 2022) sull’andamento degli infortuni e delle malattie professionali. Il loro tasso di disoccupazione è maggiore rispetto a quello delle persone italiane (rispettivamente il 14,4% e 9%). A essere disoccupate sono per lo più le donne. I lavoratori stranieri sperimentano una scarsa mobilità tra comparti: il 42,2% degli uomini è occupato nell’industria e nell’edilizia e il 38% delle donne nei servizi di cura. Il 63,8% delle persone straniere che lavora è impegnato in mestieri considerati a “bassa qualifica” (manovali, braccianti, facchini, trasportatori, addetti alle pulizie) contro il 31,7% degli italiani. Questo avviene nonostante un terzo di loro sia laureato (contro il 2,2% degli italiani). Sono spesso impiegati a termine (dipendenti a tempo determinato o collaboratori) o in part-time involontario. Le donne sono sempre più penalizzate: la ripresa delle assunzioni post covid vede un’alta presenza di contratti di apprendistato, di inserimento e a carattere intermittente.
Il rapporto evidenzia una disparità tra i lavoratori italiani e quelli stranieri riguardo agli infortuni sul lavoro. Nel 2021 sono state denunciate 564.311 denunce di infortunio, con una diminuzione dell’1,4% rispetto al 2020. Tuttavia, mentre il numero di infortuni tra i lavoratori italiani è diminuito del 2,4%, quello tra i lavoratori stranieri è aumentato del 3,1%. La percentuale di lavoratori stranieri sul totale degli infortunati è aumentata dal 15,4% del 2017 al 18,2% del 2021. In particolare, oltre il 78% degli infortunati stranieri riguarda i non comunitari, con un incremento dell’8,4% rispetto al 2017, mentre quelli provenienti dall’Unione Europea sono in calo di circa il 13%
E le discriminazioni nel caso della ricerca di una casa?
Non esistono dati recenti ufficiali relativi alle discriminazioni nell’ambito del diritto all’abitare, ma i casi denunciati attraverso la stampa sono molti. La crisi abitativa, infatti, colpisce ancora di più nel caso di persone razzializzate o, appunto, con cittadinanza diversa da quella italiana. Qui alcuni casi di cronaca:
Le persone senza cittadinanza italiana sono più discriminate nel momento in cui scendono in piazza per far valere i loro diritti?
Una tendenza al racial profiling da parte delle forze dell’ordine è stata rilevata dall’Ecri (European Commission against Racism and Intolerance) nel suo sesto ciclo di monitoraggio (Rapporto sull’Italia). Il racial profiling può portare a più conseguenze: sviluppo di un senso di sfiducia e/o avversione nei confronti delle istituzioni, emarginazione e stigmatizzazione. Nel caso del diritto di manifestazione pacifica, può condurre invece all’autoesclusione, privando quindi le persone razzializzate e senza cittadinanza di uno dei pochi strumenti per far sentire la propria voce (poiché il diritto di voto è loro negato).
Inoltre, secondo alcune testimonianze, la segnalazione da parte delle forze dell’ordine dei manifestanti può portare a un diniego della cittadinanza a fronte della presentazione della richiesta.
Le tappe del referendum cittadinanza
Il referendum abrogativo previsto dall’art. 75 Cost. stabilisce che 500.000 cittadini o 5 Consigli regionali, possono proporre all’intero corpo elettorale “l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge”.
Per legge si intende una legge in senso formale, cioè approvata dal Parlamento secondo il procedimento ordinario; per “atto avente valore di legge” si intendono i decreti legge e i decreti legislativi (adottati dal Governo su legge delega del Parlamento).
In questo caso il quesito referendario è stato proposto grazie alla firma di oltre seicentotrentasettemila cittadini, in soli venti giorni di raccolta firme. Il quesito referendario è poi stato passato al vaglio della Corte costituzionale, che lo ha dichiarato ammissibile.